rischio economia
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la transizione-
esiste ancora la classe operaia?
sembrerebbe una domanda obsoleta in un mondo quale quello occidentale tutto proiettato verso un terziario dove le vecchie classi sociali sembrano sbiadire tra l'emergere di professionalità iperspecializzate e nuove precarietà non del tutto catalogabili. un occidente ormai da anni impegnato ad affermare nuove tecnologie teoricamente in grado di assicurare dinamicità e quel ricambio generazionale che pare indispensabile anche al capitalismo.
in realtà però la cosiddetta classe operaia, oggi ormai quasi invisibile perché lontana dai nostri occhi ... dunque(“?”) anche dal “cuore” della maggioranza delle persone, esiste ancora, eccome!
molta della produzione industriale meno redditizia (ma non solo!), perché più routinaria e destinata a creare minor profitto, è stata da tempo assorbita e trasferita nei paesi di cosiddetto “nuovo sviluppo”.
a determinare questa situazione sono state due spinte contrapposte anche se tutte interne all'economia di mercato:
la prima sostenuta da ragioni meramente commerciali e dal profitto, la seconda con il democratico e sincero proposito (nonché ancora politicamente contestabile in termini di teoria radicale) di creare le condizioni-base per una transizione (accumulazione di capitale) verso un assetto mondiale caratterizzato da un visibile e concreto innalzamento della qualità della vita. dunque una posizione riformista, anche questa criticata dalla sinistra più’ radicale ma sempre nei limiti di un confronto democratico.
purtroppo però, retaggi culturali tradizionali ovunque si sovrappongono ad un sistema che mantiene ancora/te al suo interno le dinamiche otto-novecentesche tipiche della prima rivoluzione industriale. in questo contesto la componente speculativa, essenzialmente legata al profitto, si è potuta affermare ampiamente anche in questi anni attraverso i suoi mezzi storici: lo sfruttamento di manodopera a buon mercato e dell'ambiente.
se è vero che ogni tipo di transizione necessita di tempo per potersi realizzare e
che non tutto può essere ottenuto immediatamente, è altrettanto importante che le difficoltà a cui una società emergente va incontro inizialmente, siano inserite in un orizzonte che dia un senso a quel che si sta facendo. così come non è possibile non tener conto di priorità da cui dipende la sopravvivenza stessa delle persone.
al momento però con gli innegabili avanzamenti che il 900 ha prodotto, attestati tra l’altro dalla presenza di più di sei miliardi di abitanti sulla faccia della terra, permangono gravi e profondi problemi legati alla qualità della vita e dell'ambiente.
le ricadute di questo tipo di politica oggi si stanno facendo sentire ovunque in quanto condizionano pesantemente al ribasso tutta l'economia, compresa quella occidentale.
molti dei diritti sul lavoro che si pensavano acquisiti una volta per tutte, non solo non sono ancora esportati con la tecnologia nei paesi di nuovo sviluppo, ma sono trasgrediti e “rischiano” di essere messi in discussione anche là dove si erano affermati da tempo.
in realtà l'attuale assetto politico e la situazione economica, per molte ragioni, rischia di trasformarli in diritti sempre più formali.
l'utopia di diritti che si pensavano ormai affermati come acquisizione culturale e non di forza ...(“?!”)-
oggi in occidente sia i lavoratori che chi svolge una qualsiasi attività deve fare i conti con la concorrenza di paesi dove le norme sul lavoro e ambientali sono a dir poco aleatorie.
questo avviene mentre diritti che consideravamo incontestabili appaiono non così facilmente esportabili da un periodo all'altro, da un paese all'altro senza una prospettiva e un adeguato contesto di riferimento.
“le conquiste” che hanno fatto la fortuna del novecento contavano infatti su di una classe operaia forte, numerosa e coesa, oltre che ben radicata nel territori. oggi questa si presenta invece frantumata e dispersa, oppure ancora numerosa proprio là dove le condizioni sono così arretrate da rendere impossibile a breve termine una adeguata reazione a tentativi di sfruttamento privi di qualsiasi prospettiva.
proprio per queste ragioni in molti casi tutto sembra dover ricominciare da zero, come se storicamente nulla fosse accaduto.
...in altri casi poi questo si verifica perfino sotto i nostri occhi.
detto questo non è escluso che nel contesto obiettivo di paesi di nuova industrializzazione sia addirittura auspicabile che il confronto concreto con quelle realtà implichi l'emergere di dinamiche particolari e che queste richiedano tempi e modalità specifiche. ma è altrettanto chiaro come, di fronte a determinate situazioni, non sia più possibile parlare di tempo utile per la transizione, di buone intenzioni o di limiti oggettivi.
non è più credibile chi, dopo quasi un secolo di sfruttamento, dice di aver fatto tutto il possibile.
molti ad esempio si cominciano a chiedere quanto tempo dovranno ancora impiegare i paesi in via di sviluppo a svilupparsi e perché questo sviluppo in alcuni casi non è avvenuto o sembra diventare addirittura improbabile.
domande che tra l'altro nascono in tempi, quali quelli attuali, caratterizzati dall'alta velocità, dunque doppiamente legittime.
…
siamo tutti contemporanei-
questo avviene mentre tutti noi siamo contemporanei. viviamo cioè lo stesso tempo, lo stesso periodo storico.
fortunatamente però non è ancora possibile spegnere l'intelligenza come un interruttore. questa infatti “pare” fuoriuscire in altre forme inaspettate.
per questo motivo anche in considerazione delle potenzialità tecniche e delle conoscenze acquisite in molti campi qualcosa è destinato a sfuggire alle maglie di questa logica …
e si spera determinerà un cambiamento.
nel frattempo però alle intenzioni meramente speculative legate al profitto e allo sfruttamento, si aggiunge un altro problema: l'attuale transizione verso la mondializzazione avviene attraverso forme culturali discutibili se non sorpassate.
la divisione del lavoro tra lavoro intellettuale e materiale-
(un'esperienza personale)
durante tutti gli anni 80 lavorando in una fabbrica tessile di uno dei primi insediamenti industriale italiani: il biellese, non era raro per chi frequentava quell'ambiente avere accesso a riviste di settore o ascoltare discorsi che già allora affrontavano il tema della mondializzazione (anche se non si usava ancora questo termine). gli operai e tecnici in genere, e in particolare quelli che lavoravano nelle tante industrie meccaniche che producevano macchinario tessile, da tempo si interrogavano su quali sarebbero state le ricadute sull'economia locale legate all'esportazione nei paesi di nuovo sviluppo di quella tecnologia. contemporaneamente si considerava il fatto che altri mercati legati al “consumo” (utilizzo?) di quegli stessi prodotti si sarebbero in futuro aperti alle nuove produzioni riequilibrando (forse?) la situazione.
questo in realtà accadeva mentre l'equazione tra l'elevata produzione consentita dalla tecnologia e il consumo rimanevano un'incognita irrisolta.
in ogni caso, a partire da quanto si poteva sentire, leggere e vedere risultava abbandonata l'idea di una società che avrebbe riconosciuto e integrato il valore e l'esperienza del lavoro concreto con quella della crescita su di un piano di migliore socializzazione oltre che su quello più tecnologico, scientifico e legato al terziario in genere.
non era raro in quel periodo da più parti sentire apostrofare quella del tessile come una produzione da “terzo mondo”. un'idea che, insieme alla convenienza nel proiettarsi verso nuove tecnologie e tipi di investimento, nascondeva il retaggio un po' aristocratico-decadente di una cultura, per tradizione abituata a considerare il lavoro concreto di serie "b" oltre che a sminuire il lavoro dei dipendenti considerandolo come un male necessario.
oggi che il confine tra lavoro intellettuale e concreto appare essere molto meno definito, tutto potrebbe essere rimesso in discussione. molti sono gli esempi di produzioni che, pur essendo tradizionali, sono svolte a partire da nuove conoscenze e coscienze. l'olanda ad esempio non si sognerebbe mai di rinunciare alla sua economia
basata sulla floricoltura semplicemente perché non si tratta di hi-tech. al contrario proprio questa attività ha dato impulso a ricerche nel campo della genetica, chimica, biologia ed ecologia.
anche la storia ci insegna che è proprio là dove l'esperienza concreta più immediata (oltre ad essere considerata un momento di confronto irrinunciabile) viene coniugata con la cultura e la conoscenza che sono sempre nate le produzioni più valide.
ad esempio è stato l'incontro tra l'esperienza degli allevatori di bovini e quella di un medico (cioè di una persona in possesso di nozioni scientifiche) a determinare la scoperta di vaccini in grado di salvare la vita ad un numero non quantificabile di persone.
altrettanto è accaduto con mendel che ha aperto nuove frontiere nel campo dell'ereditarietà e della moderna genetica applicando strumenti matematici (a cui sarebbero poi seguiti calcoli statistici e probabilistici) alle sue esperienze condotte metodicamente su “volgari” piselli.
scoperte, quelle di mendel, misconosciute dalla comunità scientifica del tempo per circa mezzo secolo per poi essere riconosciute in quanto tali e a quel punto sciorinate quale identità culturale dall'intero occidente.
in ogni caso l'intrinseca “promiscuità” di questa prospettiva culturale è quella che più di qualsiasi altra si è rivelata la più adatta al miglioramento delle condizioni della società nonostante in occidente abbia sempre rappresentato un'eccezione a ben altre ferree regole gerarchiche e corporative che in quanto tali non ammettevano troppi sconfinamenti in altri campi.
al contrario l'idea che debbano esistere da un lato società che amministrano dedite essenzialmente al lavoro intellettuale e dall'altro società amministrate dedite essenzialmente all'esecuzione e produzione di lavoro materiale prima o poi è destinata alla decadenza o a convivere con la cattiva coscienza di un'insostenibile connivenza con una tale “sistema/tizza/zione” del mondo.
rischio economia-
un altro preoccupante problema emergente, ma non per questo nuovo (già rosa luxemburg a suo modo lo aveva ipotizzato nei termini di un sistema che si regge pensando di scaricare per sempre i problemi in altri luoghi più arretrati ma che la luxemburg stessa aveva preconizzato come finiti), è quello legato a realtà economiche che tendono a trasferire capitali e tecnologia da un luogo all'altro non appena l'emergere di rivendicazioni salariali e di diritti renda meno competitivi gli investimenti in quei luoghi. il rischio è che le potenzialità di crescita e sviluppo si vedano così costrette in un “loop” senza uscita che come minimo produrrebbe un rallentamento (o arretramento) dello sviluppo globale stesso.
resistenza e nuove prospettive-
i vari movimenti antiglobalizzazione nati in questi anni implicano sicuramente anche questo tipo di problemi. altrettanto vale per i tanti comitati spontanei che hanno espresso il loro dissenso verso forme di economia prive di prospettiva e
che, come sovente accade in questi casi, tendono a trasformarsi in economie di guerra sottraendo così risorse ad altre progettualità sentite come (e di fatto) socialmente più utili.
se infatti la globalizzazione di per sé, intesa come relazioni tra paesi su scala planetaria dovrebbe oggettivamente apportare dei vantaggi oggettivi, il modo in cui questa viene attuata è discutibile e preoccupante.
una prospettiva sostenibile di fatto implica sacrifici iniziali ma anche orizzonti e risultati concreti in parte immediatamente rilevabili che invece in molti casi e luoghi vengono sottratti a intere classi e generazioni di persone.
senza andar lontano basta ricordare i tanti lavoratori “extracomunitari” del settore agricolo (e non solo) sovente impiegati in nero per anni (se non decenni!) di cui tutti abbiamo goduto della produzione a buon mercato e che oggi sembrano infastidire piuttosto che scandalizzare per lo sfruttamento a cui sono stati sottoposti. o ancora le varie forme di precariato dove molti diritti sono del tutto inesistenti.
“senza le persone non si fa nulla”(!)- (1)
quando non sono le tecnologie ad essere trasferite da un luogo ad un altro per i più svariati motivi, ma soprattutto interessi, sono le persone in carne ed ossa ad essere soggette a una particolare forma di consumismo “usa e getta”.
eppure senza le persone non si fa nulla.
le energie e potenzialità di una persona, e per estensione di tutta la società, se correttamente impiegate sono enormi e destinate a durare nel tempo così come il prodotto del loro lavoro e delle loro attività.
in una prospettiva differente si potrebbe ipotizzare una realtà dove nessuno si senta più emarginato e dove anche i modi e ritmi di lavoro stressanti e massacranti che ancora caratterizzano il mondo contemporaneo, abbiano la possibilità essere corretti.
purtroppo non possiamo dire che le notizie di questi giorni vadano ancora in questa direzione.
1) s.levis
2) le recenti norme in materia di detassazione sul lavoro straordinario o la revisione delle 35 ore di lavoro settimanale in francia sembrano andare in direzione opposta. questo avviene in un mondo abitato da circa sei miliardi di persone dove molte di queste non chiederebbero altro che lavorare in condizioni decenti ... (e poi si parla di sicurezza!).
altrettanto vale per la riconversione avvenuta in questi ultimi anni di molti settori in economia di
guerra. settori che al contrario di altri, senza troppi clamori, molto probabilmente vanno a gonfie vele ma con pesanti ripercussioni sociali ed economiche.
n.b.
"rischio economia" è un lavoro di paola zorzi, fa parte del progetto "relazioni e scarti medi/atici" proposto da arte struktura per la fiera di castiadas.
compare tra i progetti selezionati e presentati nell'ambito della SAF 2008 - 4 / 10 settembre 2008
- ex carceri di castiadas - cagliari
www.sardegnaartefiera.it
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